Un grande privilegio

Kabul, 4 marzo 2013. È mezzanotte da poco, qui. A casa no, è ancora ieri. Fuori non sento più gli elicotteri, neppure il traffico. E il riverbero del muezzin è scomparso, silenzio.

Sono a Kabul. Sì, quella Kabul dei giornali, nel cuore dell’Afganistan. Per un documentario. Non è un posto dove vieni in vacanza. Non so neppure se è tanto facile venirci così, per diletto, quaggiù.

Oggi ho visitato un centro di riabilitazione ortopedica del CICR, il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Ero accompagnato da un italiano. Alla base, un fisioterapista, ma in pratica è uno che vive qui da 23 anni, che si è fatto le guerre, che non ha mai abbracciato un arma ma solo protesi, uomini, donne e bambini. Un uomo che sa che cosa significa il termine neutralità, per lui non è un concetto astratto. Sul suo camice bianco sta bello grande cucito un nome: Alberto. Un segno di riconoscimento “analogico”, come te li facevano negli anni ’80, quando ancora non si parlava di targhette e badge digitali con tanto di foto e microchip. Alberto, niente cognome, è superfluo per quelli come lui. Non sono qui per avere una pagina in wikipedia, loro. Anche il logo dell’organizzazione appuntato al taschino è quello di una volta: “Comite International Geneve” e al centro una croce rossa su fondo bianco. Lui, è il responsabile del più grande progetto del CICR nel mondo, l’Orthopaedic Programme in Afganistan. E i nostri primi 10 minuti li abbiamo passati più che altro a parlare di basket, della squadra di paraplegici locale, e del mio italiano da Svizzero, che non è buono come il suo. Poi, a raccontarmi il centro, a spasso fra mutilati, fisioterapisti, ortopedici e operai intenti a fabbricare protesi o sedie a rotelle (tutti ex pazienti) è stato Najmuddin, un afgano che dopo aver perso entrambe le gambe su di una mina si è reinventato la vita e ora modella protesi insegnando a camminare a chi, come lui, ha calpestato uno di quei giocattoli antiuomo. Ma non sono qui per raccontarvi tutto ciò che ho visto, devo lasciare il tempo alle storie di sedimentare, assimilare ancora molto, nei prossimi mesi. No, ora sono preso da un altro pensiero.

Un grande privilegio il nostro. Il mio e quello di chi come me vive di storie, di immagini suoni odori da poter raccontare con la radio con la musica con il cinema… Perché non sono venuto per salvare delle vite, non sono venuto per aiutare, non sono qui per sporcarmi le mani. No, sono qui a osservare, ad assaporare le emozioni altrui, a nutrire la mia curiosità, a rubare del tempo a chi già ne ha poco. E oggi, che è il mio compleanno, ci tengo a ringraziarle tutte le persone che mi hanno regalato una parte di loro, oggi e in passato. Poco importa se per un documentario, una fiction, un brano rock o una diretta radio, per una chiacchierata o per un grande progetto. Ho la fortuna di aver incontrato persone che non avrei mai conosciuto se non grazie a questo artigianato.

Ripenso a Gladjis, il tecnico di sala operatoria che mi ha portato a spasso per il “suo” blocco operatorio, dopo avermi spiegato come vestirmi, come lavarmi, infilarmi la mascherina. E mentre contava le garze, si assicurava che ogni strumento fosse al suo posto, che tutto fosse pronto ed in ordine per la complessa operazione di quel giorno; mentre passava canule e bisturi, anticipando le mosse di 4-5 persone accanto a lei; durante tutto questo suo bel da fare con tanta passione mi ha raccontato del suo mondo. Era all’ospedale Civico di Lugano, per un documentario (che, tra l’altro, andrà in onda domenica prossima, il 10 marzo).

Ripenso a Yari, che mi ha introdotto al mondo degli skater di Lugano, mi ha permesso di conoscere quella particolare famiglia urbana, raccontandomi la sua malattia ma soprattuto la forza sua e dei suoi amici.

Ripenso a quella vecchina che 14 anni fa mi portò ad acquistare le caramelle in una farmacia del centro a Lugano perché mentre le facevo un’intervista per la strada le dissi, scherzosamente, che avevo il mal di gola. Me la ricordo bene, quella vecchina alta la metà di me, tutta preoccupata per la mia tosse. Le caramelle che mi acquistò erano orrende, lei splendida.

Ce ne sarebbero tante di storie, ne ho citate solo cinque. Non si offendano tutti gli altri, dagli amici delle elementari fino a Micheal, che ho conosciuto ieri al mio arrivo qui. Solo cinque, cinque su mille che mi hanno concesso una parte di loro. Perché non ho citato tutti quegli afgani che oggi mi hanno salutato, mentre imparavano a camminare con gambe di plastica. Anche loro mi hanno concesso qualche cosa che non voglio dare per scontato. Per non parlare, e qui si aprirebbe un capitolo ancor più grande, di chi queste storie mi ha aiutato a raccontarle, le ha colte con me, le ha musicate, me le ha suggerite, ne ha dato suoni, luci, tagli, stoffe e liquidità. Un grande privilegio il mio. Poter girare film, raccontare storie. Documentari, finzione. Il lavoro che esercito, che lavoro non è, mi mette a confronto di una valanga di umanità, giorno dopo giorno. Una massa di vite che colma lo spazio vuoto di ogni cellula di cui sono composto. Ho solo 31 anni, oggi, e sono una persona tremendamente fortunata. Grazie.

E ora, se avete 19 minuti del vostro tempo, dedicateli a questo video, io ho scritto anche troppo.

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