Tartarov

Pochi minuti fa ho saputo che Jean-Jacques Hauser è scomparso qualche giorno fa. Aveva 77 anni. Jean-Jacques Hauser, compositore e pianista svizzero. Anni e anni addietro fece notizia in tutto il mondo per aver beffato organizzazione e pubblico della Tonhalle di Zurigo. Come? Si presentò come il grande pianista russo “Tartarov”, misero il suo nome in cartellone, fecero pubblicità e registrarono il tutto esaurito. Dopo l’esibizione applausi e standing ovation per il grande pianista venuto dalla russia. Quando lui disse che Tartarov non esiste e che lui era più elvetico dell’emmental – dopo qualche minuto di sgomento – tornarono ad applaudire, più forte di prima.

Ne parlarono ovunque, anche sui più prestigiosi giornali d’oltre oceano. E così Jean-Jacques Hauser Tartarov divenne celebre e fece qualche cosa per i suoi colleghi che unicamente per “non essere dell’est europa” non meritavano l’attenzione della critica. Si rintanò a vivere a Daro, vicino a Bellinzona. Dove visse fino a qualche giorno fa, assentandosi solo per concerti ai quattro angoli del globo e registrazioni musicali.

Perché ve ne parlo? Perché quando, a 18 anni, mi feci prestare una videocamera e decisi di girare il mio primo proto-cortometraggio, lo chiamai. Gli chiesi di apparire nel finale del film, e di suonare una delle sue famose improvvisazioni sui titoli di coda della pellicola.

Jean-Jacques Hauser

Andai nella sua piccola casetta di Daro, ricordo bene sua moglie che mi accolse alla porta e mi offrì un tè. Stanze piccole stracolme di opere d’arte (Hauser era anche pittore), le scalette in legno di quella casetta sviluppata in verticale, il pianoforte a coda nera al secondo o terzo piano, fra mobili antici, tappeti colorati cianfrusaglie e abat-jour. Una casa della nonna, ma più divertente e colorata. Il nostro rapporto fu splendido. Forse perché io, adolescente, non sapevo con chi avevo a che fare, per cui lascai a casa l’imbarazzo e tutte le frasi di circostanza. Il mio entusiasmo di ragazzino sopperirono alla mia ignoranza e lui, con la sua splendida moglie, mi intrattenne per tutto il pomeriggio in racconti musicali come avrebbe fatto un nonno con suo nipote.

Spero di averlo ringraziato a dovere.

Potete rivedere il film, 19:30 Diario di bordo, sul sito paranoiko, cliccando qui. Oppure potete riscoprire Jean-Jacques Hauser nel breve servizio che gli ha dedicato Il Quotidiano di oggi:
guarda la versione alta qualità (high)
guarda la versione bassa qualità (low)

Grazie Tartarov.

La via della seta

Oggi ho potuto assistere ad una prova generale di uno spettacolo del grande violoncellista Yo-Yo Ma e il suo “silk road project“. La compagnia si chiama così perchè, oltre a cinque archi, comprende diversi strumenti tradizionali asiatici – da una specie di liuto tradizionale cinese a un duduk armeno, a un sarangi indiano. Come dire: tutta la via della seta.

Si trattava di un’opera, con arie, recitativi e tutto, scritta da un compositore azerbaigiano, che racconta una storia simile a Romeo e Giulietta – solo che è una leggenda asiatica che circola da 1000 anni prima di Shakespeare. Non c’è recitazione – due cantanti, un uomo e una donna, inginocchiati, cantano a turno – immagino in azero – mentre su dei drappeggi vengono proiettati i sovratitoli del testo. Ma non è la solita storia d’amore… qui le passioni umane sono trasfigurate e le sontuosità del testo si abbinano in modo strano ma molto efficace alla sobrietà della musica, per creare una cosa che non so proprio come descrivere.

E la musica è un giocare finissimo e sapiente con la tensione suscitata dall’attrito tra suoni diversi. Sono lontanissimi gli schemi a noi familiari, compreso il sistema temperato. Il materiale è di carattere popolare e attinge alle più svariate tradizioni: i cantanti, secondo una tradizione araba, dipanano melodie arzigogolate in un raffinato gioco armonico di dissonanze sapientemente dosate – e le parti strumentali passano dalle atmosfere rarefatte dell’estremo oriente a piccole cadenze che sembrano presagire una czarda zigana,  da territori “occidentalmente” tonali a ritmi arabeggianti nella cui iregolarità si cela un’energia mai sfacciata…

E tutto questo, in qualche modo, non era un’accozzaglia di brandelli musicali alla rinfusa. Piuttosto, un aquarello di colori che si penetrano creando una grande tessitura di umanità. Finita l’opera – ovvero quando anche il monocordo cinese compie, glissando, l’ultimo quarto di tono per raggiungere tutti gli altri in quello che è forse l’unico, puro unissono di tutta la musica – ecco, lì è stato come arrivare alla fine di un unico, lungo, profondo respiro che ti riempie i polmoni di… non so cosa – ma è stato bello.

It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)

Dopo tanti anni passati ad ascoltare funamboli dell’elettronica, artisti pop che raccontano Esta selva selvaggia, makam ottomani e melismi indiani, John Cage e Manos Hadjidakis, sabato ho trascinato il cadavere fino alla Kuruce?me Arena di Istanbul – ad un concerto dei R.E.M. Potere degli accrediti, perché per Stipe & co. non avrei – e non ho ancora – speso un soldo. Capiamoci, non li scago. È solo che non sono mai andato oltre al canticchio radiofonico.
Il punto, il primo. È successo che dopo quattro secondi dall’inizio del concerto sono stato assalito da un brivido, la cui origine, oltre ad avere effetti concreti sulla pelle, ha mandato una sequela di impulsi alla parte ragionante del mio cerebro. Che mi dice: “Ma vavangulo, tre accordi, anzi due. Te li eri dimenticati, eh?”, intendendo che mi si era ormai atrofizzato il punkimetro a furia di comperare dischi di strumenti monocorde dei monti Altay. È stato un trip piacevole fino alla fine.
Il secondo punto. Michael Stipe. Ci sono personaggi, che chiamerò I Moltiplicatori di sé, che possiedono il dono di essere più di quanto gli occhi siano in grado di vedere. È una questione di volume. La loro presenza è talmente grande che si riesce a sentirli fin quasi sotto la pelle; una roba astratta, il carisma, di cui ignoro le origini. Di sicuro non è una cosa fisica. Stipe è talmente rachitico che, oltre a poter sembrare mio fratello maggiore, ha le fattezze di un tossico partorito dalla mente di Irvine Welsh.
I Moltiplicatori di sé sono rari. Qualche anno fa, a Parigi, in un palazzetto dello sport avevano radunato una mezza dozzina di grandi nomi per una ricorrenza tipo Carta universale dei Diritti dell’Uomo: conferenza stampa con la Chapman più timida di un antilope, Thom Yorke tutto asimmetrico che perorava la causa e alcune giornaliste italiane che si lamentavano, sottovoce, del puzzo dei prodotti alla canapa distribuiti dallo sponsor (il Body Shop). Oltre a rifornirci di olio per i massaggi, riempiamo la gamella (mi accorgerò più in là che il vero mezzo di sussistenza dei giornalisti freelance sono gli aperitivi offerti alle conferenze stampa) e ci avviamo al palazzetto, dove arriviamo in pieno sound check.
Dando le spalle al palco, vengo assalito da un piccolo colpetto di tosse, una scatarratina vellutata amplificata dalle migliaia di watt accatastate lì vicino. Brividi. Bruce Springsteen. Se ne stava da solo con una chitarra senza far niente. Forse si grattava, si guardava i piedi o si toccava le tasche perché si era accorto che aveva dimenticato il borsello in albergo. Fatto sta che si è solo discretamente rischiarato la voce, causandomi paralisi alle sinapsi e rilassamento a tempo indeterminato dei muscoli della mandibola. Effetto Stipe, Gran Maestro della Confraternita del Moltiplicatore di sé.
Mi è successo pure con Bowie. Mi ci avevano portato gli amici. All’inizio del concerto ero al bar, con l’attenzione rivolta alla birra o alle tette, o a entrambi perché Bowie, proprio non mi si filava. Eppure, entrata in scena e… Sbam! Encefalogramma piatto! Incoscienza, sotto gli influssi ipnotici e carismatici del Gatto di Van.
Ora, i vecchiardi come Springsteen, presi a piccole dosi, mi sollazzano. Niente di più. Faccio parte di una generazione che, se li vuole, deve andare a ripescarli con qualche sforzo. Non venitemela a menare con storie del tipo “Ma come? I grandi del rock…” e tutte quelle balle lì. Non c’ero. Quegli anni, sono obbligato a guardarli da qui. E concedetemi la possibilità che, presi in blocco, possano anche non piacermi – anzi, di più, visto che sono stati il preambolo del mondo asfittico in cui annaspiamo oggi.
Sto andando fuori tema. O forse no: rimanere due ore davanti a Michael Stipe è stato come respirare a pieni polmoni seduti alla capanna Scaletta dopo aver fatto la Greina. Benedico i Moltiplicatori di Sé. E la tessera stampa.

Gli animali salveranno il pianeta?

Me lo sono chiesto più di una volta. Gli animali salverrano il pianeta?? Ci ho pensato più volte, e la mia opinione attuale è che gli animali non salveranno il pianeta. Gli animali SONO il pianeta. Gli animali sopravviveranno (non tutti, alcuni ce li porteremo nella tomba) CON il pianeta.

Oggi Manu però mi ha mostrato un sito splendido. Fatto con quell’amore che spingeva Charlie Chaplin e Buster Keaton a raccontare con il sorriso i temi più duri. Prodotto per Discovery Cannel il sito web in questione risponde a The Animals Save the Planet. Non c’è molto da dire. Solo da vedere. Dei video in perfetto stile paranoiko.

The Animals Save The Planet

grazie manu

Celsius

è la parola che più immediatamente individua la differenza tra il luogo dove mi trovo per qualche giorno di vacanza e gli ambienti nei quali si svolge la maggior parte del film che abbiamo visto in compagnia l’altra sera a Locarno – “Lezione 21” di Alessandro Baricco, del quale vorrei parlare un po’.

Cominciamo con il dire che questo post potevo anche chiamarlo “schiuma”: la schiuma nella quale si frantumano i flutti sulle pietre sotto di me, così diversa dalla superficie di ghiaccio immobile con la quale si apre il film… e diciamo pure anche che ho appena interrotto la lettura di un romanzo di Wilde, che ha una prefazione fatta tutta a piccoli aforismi, tra cui: “L’arte in verità non rispecchia la vita, ma lo spettatore”.

Poi, dico che sicuramente un pregio il film l’ha avuto: ci ha fatto discutere. Qualcuno ha addirittura detto che voleva proprio andarsi ad ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven integralmente per sentire veramente com’è – e questo è, a mio modo di vedere, un successo (anche se non strettamente cinematografico). Perchè il film racconta una “lezione” sulla Nona di Beethoven – più precisamente, una lezione sulla distruzione dello “status” di opera d’arte sublime di questa sinfonia. Narra che il professor Killroy ha passato anni a dissacrare, distruggere opere che – a suo dire – sono considerate immeritatamente capolavori; e la sua lezione più famosa, la numero 21, trattava appunto della Nona.

Leggi tutto

A caldo (NYC, 13 giugno 2008)

Come non andare oggi a little Italy per vedere come vivono lì la fibrillazione di Italia-Romania? Ci arrivo verso mezzogiorno e mezzo e, dopo aver camminato davanti a diversi “italian reataurants” dove la gente mangia maccheroni alla carbonara anche a mazzogiorno con 33 gradi all’ombra e dove su tutto veglia il cameriere-avvoltoio che appena arresti la masticazione per 10 secondi ti porta il conto perché bisogna fare posto agli altri – dopo tutto ciò, dicevo, ecco che lo trovo.
Caffè Palermo” (“Cannoli King of Little Italy”). Tutte le sedie voltate verso la televisione in fondo al locale, qualche tazzina di caffè espresso sui tavoli, camerieri rapiti dallo schermo con l’aria che se vuoi mangiare qualcosa aspetti la fine del primo tempo. E infatti io sono entrato a qualche minuto dal Quarantacinquesimo, appena in tempo per il gol subito annullato all’Italia per fuorigioco.
Esplode il bar! tutti scattano in piedi, e uno davanti a me alza i due pugni chiusi in segno di vittoria…

Un paio d’ore dopo ero da tutt’altra parte, ma sempre dietro la schiena di uno che faceva quel gesto lì. Era Lorin Maazel e stava dirigendo il terzo tempo della nona sinfonia di Gustav Mahler. Ohibò.

Leggi tutto

Sii gentile, riavvolgi!

Ero solo al cinema Lux di Massagno questa sera. Tutta la sala per me. Gli altri eran fuori a vedere Turchia-Olanda.
Tutta la sala per me, per piangere e ridere come volevo e senza dovermi vergognare della mia maledetta naïveté.

Ho visto Be Kind Rewind, di uno di quelli che mi piacciono assai perché pensano strano: Michel Gondry.
Un film che avremmo potuto girare io e te. Ma l’ha girato Michel Gondry. E mi chiedo se devo chiamarmi Gondry, realizzare 4 lungometraggi e i videoclip di Kyle Minogue per poter fare un film così semplicemente splendido. Mi chiedo come fa il signor Gondry a mettere tutto il suo amore per il cinema in 90 minuti. Ma poi spengo il cervello. Non c’è nulla da chiedersi. C’è unicamente da stare soli in mezzo ad una sala da cinema a frignare e saltar sulla poltrona con il pollice in bocca e un sorriso che se provi a spiegarlo rimani solo deluso.

Grazie Michel.

Matematica in passerella, sfila la formula n.1

È una magnifica serata di inizio estate, e pochi minuti fa il sole ha deciso di incendiare la vallata del fiume Susquehanna – e dopo la fiammata ha lasciato il posto ad una luce azzurrina e rarefatta nella quale le ultime nuvole si dileguano spinte dal vento che viene giù dai Grandi Laghi.
Bello.
Ma un bello molto diverso dal “bello” al quale aspira (con scarsissimo successo) la cornice dello specchio che ho sopra le mie spalle qui allo Starbucks di University Plaza. Un bello fatto di essenzialità e limpidezza.

Qualche settimana fa la rivista “Time” ha pubblicato la lista delle persone secondo lei più influenti del 2007, e ad uno dei loro redattori è stato chiesto di stilare una graduatoria tra questi 100, e lui ha scritto un articolo su come ha creato la formula per calcolare la graduatoria. L’articolo è volutamente ironico, ma nella sua giocosità secondo me illustra bene quello che in matematica o in fisica si cerca in una formula: deve essere in qualche modo elegante, piacevole e, perchè no, bella.

Leggi tutto