Endsieg e il quarto potere

Qualche giorno fa, dopo anni, ho tirato fuori da uno scaffale il mio film di diploma «Endsieg – Everything Changes in One Shot», girato a Maloja durante il gelido inverno del 2007 con i miei compagni di studi Daniel Casparis e Andreas Birkle. 

L’avevamo girato in pellicola super 16 mm. Solo oggi, in occasione della proiezione di cortometraggi Cinemarittima alla Foce di Lugano curata dall’Associazione Rec, pubblico online una buona scansione digitale HD con sottotitoli in più lingue.

«Endsieg» era un progetto un po’ pazzo. Un film in pianosequenza, ovvero girato senza mai spegnere la cinepresa in un’unica sequenza, poi smontata e rimontata per creare una seconda versione della stessa storia. 

La tesi era semplice: a dipendenza del montaggio, si può modificare radicalmente il contenuto di una narrazione e ribaltare il punto di vista, decidere chi sono i buoni e chi i cattivi.
Abbiamo cercato di obbligare chi guarda a rivalutare ciò che pensava di aver inizialmente capito. Il disorientamento dei giorni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, guerra in cui oltre alle armi anche la propaganda ebbe ruolo fondamentale, ci pareva perfetto come ambientazione temporale dove mettere in scena questa idea. 

Riscoprendo «Endsieg» con la distanza che il tempo regala, mi sono reso conto di quanto sia attuale oggi.

Il periodo che stiamo vivendo ci mette di fronte a questioni che riguardano le nostre libertà fondamentali, una fra tutte quella di avere accesso a un’informazione indipendente dagli organi di potere. Un’informazione libera di porre domande alle autorità, di seguire le storie che ritiene di dover raccontare, scevra di retorica e consapevole del suo importante ruolo nella società. La propaganda non è informazione. la prima è la voce dello stato, l’altra è lo splendido mestiere del giornalismo.

Sono convinto che il servizio pubblico vada sostenuto in questo senso, costantemente. Anche in periodi di “necessità” e “misure straordinarie”.

Potete scoprire di più su «Endsieg – Everything Changes in One Shot» → alla pagina del film.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Marc Engels catturava il silenzio

** Texte en français plus bas **

Ieri ho ricevuto una notizia molto triste. È scomparso il caro amico e collega Marc Engles, l’ingegnere del suono di tante pellicole fra cui «Atlas». A informarci è la sua compagna di vita Sabine.

In Belgio, dove viveva, il Covid-19 se l’è preso. Veniamo a saperlo mentre siamo tutti chiusi nel nostro isolamento. Rimango basito, in silenzio.

Marc per me è stato un “regalo” venuto grazie alla bella co-produzione belga per «Atlas». Mi proposero di lavorare con qualcuno del Belgio, chiesi consiglio e mi fecero il suo nome: “è molto richiesto ma il tuo progetto potrebbe interessargli”. Un primo contatto attraverso la produzione, lui che legge la sceneggiatura, quindi una piacevolissima serata a chiacchierare, lui e io, in una brasserie di Bruxelles. Dopo qualche giorno l’email: Marc era dei nostri. Ero felicissimo vi fosse in squadra uno con la sua esperienza. E ancor di più dopo averlo conosciuto, perché oltre che bravo era simpatico, spiritoso, piacevolissimo, la persona ideale con la quale passare le settimane sul set.

Molti pensano che il lavoro di un ingegnere del suono sia più o meno registrare i dialoghi. Quando lo incontrai, davanti a un bicchiere di vino (Marc è tutt’oggi l’unico Belga che conosca che amava più il vino della birra artigianale) gli dissi che per questo film mi sarebbe piaciuto avere i silenzi. Marc si illuminò. Ci siamo capiti in un istante. Catturare i suoni di un film fatto di esitazioni, respiri, silenzi sospesi e poche parole strozzate in gola è dannatamente difficile. E Marc era maestro in questo. Con lui ho imparato tantissimo. Mai ingombrante, delicato e rispettoso degli attori quando poco prima di un ciak andava a piazzar loro il suo microfono, sorridente e discreto, non mi sono preoccupato un istante che stesse facendo un buon lavoro. Anzi, era lui a infondere fiducia e a farmi capire che stava andando tutto bene. Averlo sul set è stato preziosissimo, le chiacchiere a fine giornata e il bicchiere di vino nel giorno di pausa all’enoteca Pinard in città nel giorno di pausa una piacevolissima nuova amicizia.

Oggi mi trovo al montaggio di Atlas e quotidianamente scopro il tesoro che Marc ci ha lasciato: non devo aggiungere musiche o effetti posticci per far emergere le vibrazioni sonore dei protagonisti e dei luoghi perché è tutto là, nelle piste incise da lui. Ogni respiro ha la distanza giusta, ogni ambiente si rivela anche in ciò che è invisibile. Tutto ha una dimensione, una profondità e una vita oltre ciò che si vede. Le fronde degli alberi, la città che dorme fuori dal salotto immerso nella notte, l’angoscia dell’immobilita nel fiato mozzato di chi non sa che cosa dire, le parole morte sulle labbra perché troppo difficili da esprimere. Il brusio di una festicciola fra amici e le crepe del parquet nei passi della protagonista. Marc vive e vivrà in quell’invisibile. 

Mi mancherà molto. Aspettavo di incontrarlo una volta ultimato il film. Atlas da oggi è un po’ più suo.

Stanotte mi sono andato a riascoltare alcuni suoi ambienti. Ne ho messi un paio qui. Catturava l’invisibile Marc.

Hier, j’ai reçu une très triste nouvelle. Mon cher ami et collègue Marc Engles, l’ingénieur du son de nombreux films dont “Atlas”, a disparu. Sa compagne de vie, Sabine, nous en informe.

En Belgique, où il vivait, le Covid-19 l’a pris. Nous le découvrons alors que nous sommes tous enfermés dans notre isolement. Je suis frappé, en silence.

Marc pour moi était un “cadeau” qui est venu grâce à la belle coproduction belge pour “Atlas”. Ils m’ont proposé de travailler avec un Belge, j’ai demandé conseil et ils m’ont donné son nom : “c’est très populaire mais ton projet pourrait l’intéresser”. Un premier contact à travers la production, lui qui a lu le scénario, puis une soirée très conviviale à discuter, lui et moi, dans une brasserie bruxelloise. Après quelques jours, l’e-mail : Marc était avec nous. J’étais très heureux d’avoir quelqu’un avec son expérience dans l’équipe. Et encore plus heureux après l’avoir rencontré, car en plus d’être compétent, il était gentil, drôle, très agréable, la personne idéale avec qui passer des semaines sur le plateau.

Beaucoup de gens pensent que le travail d’un ingénieur du son consiste plus ou moins en l’enregistrement de dialogues. Quand je l’ai rencontré, autour d’un verre de vin (Marc est encore le seul Belge que je connaisse qui aimait le vin plus que la bière artisanale), je lui ai dit que j’aurais aimé avoir des silences pour ce film. Marc s’est illuminé. Nous nous sommes compris en un instant. Capturer les sons d’un film fait d’hésitations, de souffles, de silences suspendus et de quelques mots étouffés dans la gorge est sacrément difficile. Et Marc était un maître en la matière. J’ai beaucoup appris avec lui. Jamais maladroit, délicat et respectueux des acteurs quand juste avant une prise il allait placer son micro, souriant et discret, je n’ai pas eu un seul instant le souci qu’il fasse du bon travail. En fait, c’est lui qui m’a donné confiance et m’a fait comprendre que tout allait bien. L’avoir sur le plateau a été inestimable, les conversations de fin de journée et le verre de vin du jour de congé chez le caviste de Pinard en ville ont permis de tisser une nouvelle amitié très heureuse.

Aujourd’hui, je travaille au montage de «Atlas» et chaque jour je découvre le trésor que Marc nous a laissé : je n’ai pas besoin d’ajouter de la musique ou de faux effets pour faire ressortir les vibrations sonores des protagonistes et des lieux car tout est là, dans les traces gravées par lui. Chaque respiration a la bonne distance, chaque environnement se révèle même dans l’invisible. Tout a une dimension, une profondeur et une vie au-delà de ce qui est vu. Les branches des arbres, la ville qui dort hors du salon immergé dans la nuit, l’angoisse de l’immobilité dans le souffle coupé de ceux qui ne savent que dire, les mots morts sur leurs lèvres parce qu’ils sont trop difficiles à exprimer. Le bourdonnement d’une petite fête entre amis et les fissures du parquet dans les pas du protagoniste. Marc vit et vivra dans cet invisible. 

Il me manquera beaucoup. J’attendais de le rencontrer après le film. Atlas est maintenant un peu plus à lui.

Hier soir, je suis allé réécouter certaines de ses prises de son. J’en ai mis quelques-uns dans la vidéo ci-dessus. Il a capturé l’invisible Marc.

Marc Engels sul set «Atlas». Foto by Sabine Cattaneo. Imagofilm Lugano

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Ciao Marco

Questa sera sulla TV Svizzero tedesca Schweizer Radio und Fernsehen (SRF 1 ore 23.00 ca.) andrà in onda «Tutti Giù». Cercando tra le fotografie del set del 2012 troviamo questa: Marco Zucchi intervista Pietro Zuercher durante due giorni di visita alle riprese del film sulle piste di sci.

Marco non mancava mai di visitare i nostri set, realizzare reportage che poi andavano a sostenere le produzioni locali. Con la sua simpatia e il suo entusiasmo era in grado di appassionare il pubblico anche per le pellicole girate qui da noi. Era curioso per ogni cosa che si muoveva dietro e davanti alla cinepresa e non mancava mai di dare spazio in radio, tv e web a tutti i professionisti del cinema, non solo attori, produttori e registi.

E poi organizzava le proiezioni dei film “local” in cineclub e scuole, spiegando ad appassionati e ragazzi cosa stesse dietro al fare cinema.

Ciao Marco. Ci manchi già. Ti penseremo spesso prima e dopo ogni nuovo AZIONE. Io, personalmente, ti ricorderò per le prime trasmissioni radio dal festival e i programmi realizzati assieme a Metropolis. E stasera tornerò con piacere a quando quel giorno, dopo le interviste sul set feci pure la comparsa sulle piste di «Tutti Giù».

Addio a Marco Zucchi (RSI – 12.1.2020)

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Ermanno Olmi

7 maggio 2018

Il cinema leale con la vita me l’ha mostrato Ermanno Olmi. Era il 2004, un po’ per caso ho frequentato un laboratorio di cinema ad Arzo tenuto da lui. Compito per gli studenti: scendere per strada e raccogliere una “postazione per memoria”. Io realizzai «Corso Elvezia», uno dei miei primi lavori di questo genere.

Il fine settimana con Olmi mi fece capire che dietro ad ogni fotogramma ci può essere tanta curiosità per la vita; che la cinepresa è il mezzo, quel che conta è ciò che capita oltre l’obiettivo. Ogni storia ha il suo modo per essere raccontata, una volta è un documentario, l’altra un film di finzione, l’altra ancora un libro. Olmi ti spingeva a osservare ogni piccolo dettaglio di ciò che avevi davanti, anche di tutto ciò che credevi di conoscere già.

Arzo (CH), ottobre 2004

Quando gli chiedevi se il suo cinema raccontasse la verità lui ti rispondeva che no, al massimo il suo cinema era leale. Leale con la vita.

Dopo il laboratorio in Ticino ho iniziato a frequentare ipotesICinema a Bologna, portato avanti da Olmi con Mario Brenta e frequentato da un gruppo a dir poco eterogeneo di curiosi di cinema. Là “Ermanno” – come lui ci chiedeva di chiamarlo benché noi provassimo un lieve senso di inadeguatezza – era sempre il più giovane e curioso di tutti. Il suo modo di fare cinema raccontava in modo sincero ciò che lui stesso provava nei confronti del mondo che conosceva o voleva scoprire. E così ci spingeva a fare durante i lunghi sabati ad analizzare i nostri cortometraggi. Dovevi imparare a incassare con Olmi ma ciò che ti tornava in dietro era qualcosa che non si trovava nei manuali di cinema. Olmi guardava ogni nostro breve film e faceva mille domande. Era curioso allo stesso modo nel comprendere meglio grandi temi filosofici come nel capire come si fa il pane.

A fine giornata le battute sagaci, ficcanti, accompagnate sempre da un bel pranzo cucinato “in foresteria”, erano il suo modo di ricordarci che non c’era stato giudizio nel dibattere sul lavoro di ognuno e che bisognava rimanere con i piedi piantati per terra.

Curiosità e sincerità con e sul mondo che si vive tutti i giorni, guardato in orizzontale, senza giudizio, senza mai guardare il proprio interlocutore dall’alto ma nemmeno dal basso. Era così Ermanno Olmi. E il suo cinema era altrettanto ad altezza uomo.

Mi mancheranno le sue enormi mani e il suo gran sorriso. Grazie per quanto di inesauribile ci hai regalato.

foto: Repubblica.it (http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2018/05/07/news/ermanno_olmi-195753839/)

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Paolo Villaggio

Con il suo personaggio Ale e io abbiamo passato ore di chiacchiere. In qualche modo nel 2012 abbiamo provato a raccontarlo a modo nostro, nella puntata 51 di Arriva John Doe, per Rete Tre. Oggi Paolo Villaggio se n’è andato ma continueremo a fare le nostre passeggiate con Fantozzi, ne son certo.

ALE: Qui però Nico si va oltre il cinema. Fantozzi inizia prima e finisce dopo. I film lo portano solamente all’attenzione della massa. Fantozzi al cinema altro non è che un gigantesco specchio piazzato di fronte all’Italia del post-boom economico. Prima però c’è un libro, dopo, una leggenda.

NICC: esatto, perchè Fantozzi, portato in sala da Luciano Salce, nasce non da un ciak, bensì da una penna. La penna di quel Paolo Villaggio che poi, pur controvoglia, oltre ad avergli dato vita, gli presterà pure il volto. Fantozzi è un romanzo. Anzi, facendo un ulteriore passo indietro è esperienza. Esperienza sul campo. Villaggio lavora da impiegato in una grande ditta, vive e osserva la realtà “industriale” e ne ritrae il protagonista medio.

ALE: in sintesi un mezzo ignorante, sfigato, che sogna la collega bramata dall’intero ufficio e costretto a una moglie agghiacciante, la Pina, madre di una sorta di toporagno su due zampe, Mariangela. Fantozzi detesta la sua vita, ma è anche abbastanza umile e lucido per capire, al termine di ogni puntuale sconfitta, jella o caduta, che è l’unica che può permettersi.

NICC: Fantocci-Pupazzi-Merdaccia è l’italiano considerabile e considerato solamente perché proprietario di due gambe e due braccia, manovrate da una testa fragile, povera, vittima ideale di quel che un giorno sarà il mobbing. Il ragioniere Ugo è l’Italia tanto semplice quanto disarmante.

ALE: un soggetto perfetto per farne un ragù di comicità. E il cinema, puntuale, arriva. I primi due capitoli, Fantozzi e il secondo tragico Fantozzi, sono l’apoteosi del delirio comico/sociale. Sia chiaro, stiamo parlando di ottimo cinema.

NICC: certo, se per voi l’ottimo cinema è solo la Nouvelle Cousine Godard, allora grazie arrivederci, ma restando sulle corde comiche, di una comicità un po’ noir, un po’ malinconica, qui siamo di fronte a un gioiello raro.

ALE: la comicità di Fantozzi è trasversale. Travolge e conquista tutto: lingua, iconografia, narrativa, costume, politica. Non è un caso che il Fantozzismo diventi gergo comune, vocabolo del dizionario, immaginario collettivo. Perchè Fantozzi è l’osservato e l’osservante allo stesso tempo.

NICC: per osmosi Fantozzi assorbe da Villaggio, pessimista cosmico tendente all’apocalisse umana, e dalla società che lo genera ed accoglie. Assorbe, assimila, e ridistribuisce. Chi lo odia, e sono in tanti, facilmente è chi non riesce a digerirlo. A capire che è pane quotidiano, e buttare giù. Imbecille chi ride? Ma signori, lo si sa: spesso si ride per non piangere.

Arriva John Doe, ottobre 2012, Alessandro De Bon e Niccolò Castelli

 

foto Wikipedia

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Là sotto (Sigirino, 12.10.2015)

nel ventre della montagna

12.10.2015, Sigirino – Cordoglio. E solidarietà. A tutti i compagni, amici e colleghi del minatore che ha perso la vita quaggiù stamane.

Ho passato del tempo con loro di recente, la generosità con la quale ci hanno accolto e il loro orgoglio nel mostrarci il loro lavoro nel ventre della montagna mi hanno lasciato un segno.

Lavorano sudano, si spaccano la schiena, sono vicino a noi ma sono invisibili. Avanzano di 7-8 metri al giorno e quando avranno finito loro arriveremo noi, a 300 km/h.

E non sapremo mai il loro nome, benché di fatica, orgoglio e onore là sotto ne mettano in gioco in quantità da eroi. Anonimi eroi.

di più sulla tragedia

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Fuori Mira

«Fuori Mira» è il nuovo film di Erik Bernasconi. Uno dei tanti Bernasconi cineasti – tutti di talento! – nella nostra piccola landa, che quasi ti vien da pensare che non solo Coppola porti bene alla settima arte, ma anche questo cognome nostrano. Ma lui, quello che in molti definiscono come il regista più famoso di Camorino, che altri scrivono con la “c” al posto della “k” – una K che racconta il suo savoir faire tutto danese (sì, ha del sangue vichingo il Bernasconi!) – be’, lui per me è qualcosa in più: è il mio “gemello diverso”. O meglio, è così che ci ha definito Marco Jeitziner tempo fa in un suo articolo e così mi piace pensarlo.

“gemello”, perché Erik c’è sempre, mi capisce quando ho l’impressione di sbatter la testa contro il muro e si fa una sonora risata quando gliela meno con una delle mie para. Perché condividiamo una gran voglia di raccontare storie, una voglia così viscerale che mi sa s’è nascosta nel nostro DNA. Forse è proprio quella parte di codice genetico che ci rende fratelli; mi spiace Erik, ma un po’ ti tocca.

diverso”, perché Erik non fa i film come (cerco) di farli io. Lui li fa… altri. Dice cose che pensa e racconta emozioni che prova, come vorremmo fare tutti, ma lui lo fa in un modo che solo Erik Bernasconi riesce a fare. E al pubblico arriva tutto, non solo il piatto principale, ma anche il contorno. Anzi, quel che mi piace di Erik è che lui ti porta un piatto in tavola assai succulento e invitante da gran mangiata domenicale e mentre te lo serve sotto ai baffi se la ride. Perché dopo aver per primo assaggiato tutti gli ingredienti nel contorno lui c’ha messo qualche goccia di sano cinismo mescolato ad uno sguardo tutt’altro che perbenista sul mondo in cui viviamo.

Come in “Fuori Mira”, un film che parla del suo e del nostro territorio, di cosa è lui e siamo noi e dove stiamo probabilmente andando, fermi al calduccio dei nostri appartamenti (tranne il mio, che la stufa non funziona, ma questo non c’entra). Lui lo dice, “è un Ticino che non sempre mi piace” quello de-centrato in “Fuori Mira”. E lo dice senza giudicare ne sbraitare. Tu prendi, fatti una risata, aggrappati alla poltrona nella suspance e alla fine porta tutto a casa. Questo è il regalo che Erik e tutta la sua banda (sceneggiatori, attori, crew… non c’è mica solo lui, eh!) ti fa se vai a beccarti “Fuori Mira” in sala.

È uno spottone il mio? Un po’ sì, queste righe le ho scritte per invitarvi ad andare al cinema in questi giorni. Non poi, non “me lo sono perso ma lo aspetto in TV”. Ora. E io non mi sento in colpa: quando ci si adopera per condividere il bello non c’è nulla di male, no?

Ps.: Erik, è vero che te la ridi sotto ai baffi, ma quel pizzetto da vichingo non si può vedere…

 

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

A Kabul tutto bene, e si va avanti

Ti alzi dopo una delle notti più silenziose di tutte quelle vissute qui a Kabul. E qui le notti solo sempre molto silenziose visto il parziale coprifuoco. Solo qualche elicottero e il passaggio di una o due jeep. Ancora prima di arrivare alla cucina per la colazione un sms ricorda a te e a tutti i collaboratori del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) che oggi si dovrà rimanere a casa. Il pensiero e le chiacchiere fra di noi, davanti a una splendida insalata di frutta, è in costante ping pong, sballottato fra il volersi ripetere quanto è bello questo posto, quanto concreto ciò che il CICR fa, e l’attacco di ieri a un luogo identico a quello dove ci troviamo ora, a quella guardia, vittima dell’attacco di ieri a Jalalabad e agli altri collaboratori che hanno vissuto un paio d’ore molto dure. E che ora sono accompagnate.

Ogni giorno entri ed esci da cancelli, porte, barriere sorvegliate da guardie di ogni armamento e nazionalità. Non tutti sanno che quelle del CICR sono diverse dalle altre: a tenere aperte le porte della Croce Rossa sono persone del luogo, non armate. Nessun mercenario. Nessun esercito. Niente fucili spianati.

29.05.2013 ICRC Orthopaedic Centre in Kabul
29.05.2013 ICRC Orthopaedic Centre in Kabul

Nessuna arma può entrare negli spazi del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Nelle case, negli uffici, nei centri ortopedici, ogni volta che si entra in un luogo targato ICRC Geneve ci si sente più liberi, rilassati e al sicuro. Nessuna divisa. Neppure le auto con le quali vai e vieni per le vie della città sono paragonabili agli enormi SUV che tutte le organizzazioni internazionali di pari grandezza qui hanno. Nessun vetro blindato, niente guardie armate a farti da scorta, solo una grande croce rossa su ogni lato del veicolo e vari adesivi che ricordano la neutralità che quel simbolo rappresenta. E ti senti bene, vedi altri stranieri girare nei veicoli blindati vestiti di giubbotti antiproiettile; parli con loro e vieni a sapere che non sono mai usciti dal loro compound, che non hanno idea di come sia fatto l’Afganistan e nemmeno Kabul “per motivi di sicurezza” e tu, sebbene hai la libertà di movimento limitata e sottostai a precise regole di sicurezza molto ferree, pensate per evitare di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato, ti ritieni fortunato.

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Un giorno in ospedale

Che cos’è un ospedale? Professionisti del settore esclusi, l’ospedale è il pronto soccorso dove la mamma ci ha portato da bambini a fare i punti dopo esser caduti in bicicletta, o l’ospedale è dove han tolto le tonsille a mio fratello, l’ospedale è dove lui dopo l’operazione ha mangiato tantissimo gelato, l’ospedale e dove son stato a trovare il nonno per l’ultima volta. L’ospedale è di medici e infermieri e è dove c’è quell’odore un po’ strano. L’ospedale è dove arrivano le ambulanze a tutte le ore del giorno e della notte. L’ospedale fa paura, è una cosa che non osiamo raccontare nemmeno a noi stessi. Benché, probabilmente, molti noi in ospedale hanno hanno visto la prima luce.

Se lo guardi da lontano noti che è un crocevia, è una piazza, una città nella città, è il surrogato di vita e – è il caso di dirlo – di morte, è un cuore pulsante, l’organo vitale di una città, di una regione, di una società che, con quel luogo, ha un rapporto simbiotico. Un sangue fluido, noi; un organo, lui, il nosocomio, apparentemente omogeneo ma che se esaminato al microscopio è un insieme di singoli elementi distinti, essenziali per il funzionamento del corpo stesso.

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Un grande privilegio

Kabul, 4 marzo 2013. È mezzanotte da poco, qui. A casa no, è ancora ieri. Fuori non sento più gli elicotteri, neppure il traffico. E il riverbero del muezzin è scomparso, silenzio.

Sono a Kabul. Sì, quella Kabul dei giornali, nel cuore dell’Afganistan. Per un documentario. Non è un posto dove vieni in vacanza. Non so neppure se è tanto facile venirci così, per diletto, quaggiù.

Oggi ho visitato un centro di riabilitazione ortopedica del CICR, il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Ero accompagnato da un italiano. Alla base, un fisioterapista, ma in pratica è uno che vive qui da 23 anni, che si è fatto le guerre, che non ha mai abbracciato un arma ma solo protesi, uomini, donne e bambini. Un uomo che sa che cosa significa il termine neutralità, per lui non è un concetto astratto. Sul suo camice bianco sta bello grande cucito un nome: Alberto. Un segno di riconoscimento “analogico”, come te li facevano negli anni ’80, quando ancora non si parlava di targhette e badge digitali con tanto di foto e microchip. Alberto, niente cognome, è superfluo per quelli come lui. Non sono qui per avere una pagina in wikipedia, loro. Anche il logo dell’organizzazione appuntato al taschino è quello di una volta: “Comite International Geneve” e al centro una croce rossa su fondo bianco. Lui, è il responsabile del più grande progetto del CICR nel mondo, l’Orthopaedic Programme in Afganistan. E i nostri primi 10 minuti li abbiamo passati più che altro a parlare di basket, della squadra di paraplegici locale, e del mio italiano da Svizzero, che non è buono come il suo. Poi, a raccontarmi il centro, a spasso fra mutilati, fisioterapisti, ortopedici e operai intenti a fabbricare protesi o sedie a rotelle (tutti ex pazienti) è stato Najmuddin, un afgano che dopo aver perso entrambe le gambe su di una mina si è reinventato la vita e ora modella protesi insegnando a camminare a chi, come lui, ha calpestato uno di quei giocattoli antiuomo. Ma non sono qui per raccontarvi tutto ciò che ho visto, devo lasciare il tempo alle storie di sedimentare, assimilare ancora molto, nei prossimi mesi. No, ora sono preso da un altro pensiero.

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